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Il cibo è oggi una conquista che pare definitiva, un diritto acquisito. Almeno per chi abita in paesi come l'Italia, un tempo un altro paese della fame come ce n'erano tanti (e ce ne sono ancora tanti). Eppure la scelta del cibo, e la sua qualità non saranno mai una conquista definitiva. In questo senso la conoscenza del cibo, il suo apprezzamento e soprattutto il suo riconoscimento riguarda da sempre ogni nuova generazione che oggi non si misurano più con la fame, ma con la normale scarsa capacità di distinguere dei piccoli tra un cibo vero, nutriente e di origine trasparente e cibi di qualità nutrizionale ed origine perlomeno dubbia.

   

Se nel bambino (in famiglia o a scuola) si afferma il diritto alla scelta del cibo, si afferma anche la grande incognita degli strumenti a disposizione per operare queste scelte. Più che un discorso individuale si tratta di una dilemma familiare che ognuno affronta e risolve a suo modo.

Da queste scelte, che si potrebbe dire sono di consumo, derivano:

- le abitudini alimentari (il formarsi del cibo come strumento identitario)

- gli apporti nutrizionali  (e si potrebbe aggiungere molti correlati di salute della futura vita adulta)

- lo spreco (ovvero lo sminuimento del cibo come bene)

- l'investimento emotivo nel cibo

Sono tutte e quattro cose che hanno a che fare con la salute e l'atteggiamento che il bambino ha verso il familiare, l'amico o l'altro in generale. Vorremmo soffermarci solo sull'ultimo punto, dato che i primi tre sono piuttosto noti.

Generazioni di nonne del dopoguerra hanno riempito generosamente i piatti dei nipoti incoraggiando benevolmente una nutrizione che era la negazione della necessità e dei pilastri della dieta. Oggi questo modello sembra essere stato sconvolto ed è inesorabilmente tramontato a beneficio del marketing che propone nel cibo il bello, il buono ed il desiderabile preconfezionato ad un "giusto prezzo" portanto però inevitabilmente alla monocultura del cibo, al tramonto del cucinato e della cucina casalinga ed al riferimento al marchio come unico riferimento di qualità. In realtà il suo affermarsi dilagante è solo il risultato della resa di nonne e genitori che si sono ormai assuefatti al compromesso tra il mediaticamente desiderabile e ciò che il pargolo verosimilmente si degnerà di assaggiare e consumare. Il desiderio è passato dalla sostanza al packaging ed al messaggio ascoltato o fruito con gli occhi, la ricompensa è quel gusto lì... ne ottimo ne cattivo: un gusto che può essere di tutti e che è quindi assolutamente democratico. La negazione del gusto.

  

E così che si perde la scelta, il presupposto fondamentale della libertà. Come arrivare a deviare questa traiettoria che è il toccasana dei bilanci di qualsiasi multinazionale del food, ma che ci protende pericolosamente verso una dipendenza simbolica senza precedenti?

  

Si è cercato da più parti di porre rimedio, il più delle volte con malcelata ipocrisia. Ci hanno provato le catene della GDO orientando la futura clientela sul marchio-negozio in un trionfo di parternalistico (e dubbio) bombardamento delle menti impreparate di scolaresche ed insegnanti conniventi. Ci hanno provato i produttori globali fagocitando i capisaldi delle avanguardie alimentari (varie light, zero grassi, zero zuccheri, Vegan, crudiste, vegetariane, biologiche, km0, ecc) per fare definitiva piazza pulita di culture del cibo in controtendenza o contrapposte. Ne hanno fatto altrettanti marchi di prodotto healty indistinguibili da quelli precedentemente proposti. Ci hanno provato le istituzioni nazionali ed internazionali preposte -che opportunamente consigliate dalle lobby- hanno fatto ormai del cibo l'ultima frontiere del business planetario basato (anche normativamente) sul mordi e fuggi o se preferiamo del consumo alimentare insensato basato su su un sistema "produci, sfrutta ed abbandona".

  

Quel che sembra chiaro è che non se ne uscirà, finché insieme al cibo non si smetterà di propinare anche messaggi (giusti o sbagliati che siano). Il cibo da sempre è frutto della cucina, di tanto lavoro e cultura, non è detto che sia a buon mercato ed è comunque declinato dalla scelta personale (o familiare o del proprio gruppo d'apparteneza). Il suo consumo (e la sua produzione in cucina) è un gioco d'affetti e di speranze : l'apprente infinito circolo del desiderio e della sua soddisfazione. Proprio per questo esso è intrinsecamente portatore di un messaggio straordinariamente complesso che è l'unico che gli può essere riconosciuto, oltre (forse) a quello nutrizionale nudo e crudo e di sanità. Questa è la sua unica logica. Per capirlo non c'è altro modo che produrlo e consumarlo, con tutto ciò che ne consegue.

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